Il legame di appartenenza con una squadra, con la sua città, con la sua gente, è qualcosa di sempre più raro nello sport professionistico moderno, anche nel basket. Non sono un caso i mal di pancia recenti in ambito NBA sulla costruzione di “super team”, che guardano esclusivamente alla vittoria immediata, alla ricerca del trionfo personale, rispetto alla creazione di una cultura attraverso cui portare un’intera comunità verso il traguardo. Anche nel basket italiano, con dinamiche diverse, le “bandiere”, i giocatori simbolo di una città, sono sempre meno.
Tra queste c’è sicuramente Andrea Coronica, una carriera intera nella Pallacanestro Trieste e oggi capitano di una squadra in piena corsa per i playoff del massimo campionato italiano. Andrea a Trieste è cresciuto cestisticamente e ha vissuto in prima persona la scalata alla Serie A. Di mezzo due grossi infortuni, ma un legame troppo forte con la città, con la sua tradizione sportiva, con i valori del club e del basket per potersi fermare. Un percorso che ha ancora diverse pagine da scrivere, ma che lo vede comunque proiettarsi nel futuro, perché la formazione e la crescita professionale devono viaggiare in parallelo con la carriera sportiva: un motivo che lo ha portato a partecipare anche a Digital & Entrepreneurship in Sports, il programma di formazione in Digital Economy di LVenture Group e Training Program by SKS365.
Quali sono i valori che ti ha dato il basket e quali insegnamenti ti porti fuori dal campo?
La pallacanestro in generale da una possibilità di coesione tra le persone, la capacità di lavorare in team facendo l’intervento giusto al momento giusto. Nei momenti di difficoltà ci si guarda negli occhi per risolvere i problemi nel minor tempo possibile. Se hai perso la domenica devi poi rigiocare il mercoledì in un’altra parte d’Italia, o in Europa se fai le coppe. L’insegnamento che mi porto dietro è sicuramente la determinazione nel darsi un obiettivo e nel raggiungerlo insieme ed è quello di cui farò tesoro nel post-carriera.
“L’insegnamento che mi porto dietro
è sicuramente la determinazione
nel darsi un obiettivo e nel raggiungerlo insieme”
Sei cresciuto in un team storico del basket italiano,
con un percorso forse oggi abbastanza raro di militanza in una unica squadra, di cui sei capitano.
Ci racconti le tappe più importanti della tua carriera e il tuo legame con Trieste?
Ho fatto un percorso abbastanza lineare, iniziando nelle giovanili della Pallacanestro Trieste e fin da piccolo la mia ambizione era allenarmi e giocare nel campo “dei grandi”. Il fascino del palazzetto di Trieste è poi riconosciuto in tutta Italia. Giochiamo, anzi giocavamo – si corregge pensando allo stato attuale legato alla pandemia – davanti a 6.000 persone ogni domenica ed è un qualcosa di magico, che ha reso semplice la scelta di proseguire con un’unica maglia. Io ho avuto la fortuna di esordire a 15 anni in prima squadra, perché eravamo in Serie B e c’è stata la possibilità di giocare da subito, grazie anche al mio allenatore. Abbiamo vinto il campionato e, dopo diversi anni in B1, dove ho subito il mio primo brutto infortunio in carriera, arriviamo in A2. Avevo deciso di smettere ma Eugenio Dalmasson (attuale allenatore della Pallacanestro Trieste ndr) mi ha convinto a non mollare. Dopo quella esperienza siamo arrivati dove nessuno avrebbe immaginato: il primo contratto, le prime convocazioni in nazionale giovanile, la vittoria del campionato di A2 fino ad arrivare in Serie A e, purtroppo, anche un secondo infortunio grave. Ho sposato Trieste perché era il mio sogno da bambino e ho deciso di restare, anche se con un minutaggio ridotto. Sono 3 anni che adesso siamo in Serie A, il primo anno abbiamo disputato i playoff, poi la stagione scorsa è stata condizionata dalla pandemia, come quella attuale, che ci vede però in piena lotta con le migliori squadre.
“Ho sposato Trieste perché era il mio sogno da bambino
e ho deciso di restare,
anche se con un minutaggio ridotto”
Siete in piena corsa playoff, come valuti ad oggi la vostra stagione?
È un campionato difficilissimo da gestire, con la variabile Covid che impazza. A novembre sono state rinviate 3 partite, abbiamo poi avuto diversi casi anche nel nostro spogliatoio perdendo altre 2 partite e recuperandone quindi 5 in due settimane. Questa situazione incide sicuramente sulla programmazione di un campionato di alto livello come quello italiano. Dopo queste difficoltà abbiamo inanellato una serie di risultati utili che ci hanno portato alle final eight di Coppa Italia e adesso in corsa per un posto nei playoff. È tutto nelle nostre mani e dobbiamo crederci.
L’Italbasket negli scorsi anni ci ha regalato grandi vittorie anche a livello internazionale, trascinata da una generazione di campioni.
C’è stata poi qualche “battuta di arresto”, nonostante giocatori di livello assoluto.
Qual è lo stato attuale del movimento italiano?
La nazionale è sempre un argomento difficile per tutti. Ho gioito delle medaglie olimpiche quando ero molto piccolo e ci aspettavamo grandi cose da una nazionale che poteva schierare i giocatori italiani “Nba”. Siamo sempre arrivati li vicino, poi all’ultimo qualcosa non ha funzionato, dettagli, che però hanno interrotto la corsa. Detto questo, in estate c’è un preolimpico importantissimo per il movimento e da li bisogna tracciare la linea del futuro. Io penso che il grosso problema sia a livello giovanile. Programmazione, organizzazione e comunicazione sono le tre caratteristiche fondamentali per ogni società. Siamo arrivati ad un punto in cui gli investimenti sulle strutture e sui settori giovanili stanno diminuendo e questo porta a un livello inferiore nella preparazione dei giocatori che arrivano poi in prima squadra. Bisogna ripartire dai settori giovanili, dalle esperienze importanti, dal costruire localmente giovani talenti e formare allenatori e preparatori atletici. E poi le strutture. Inutile girarci intorno, se guardiamo i palazzetti in cui gioca la Serie A adesso, alcuni sono veramente da risistemare, e parlo da atleta fortunato che si allena in una struttura bellissima. Va alimentato un circolo virtuoso, bisogna crederci e servono investimenti.
“Bisogna ripartire dai settori giovanili,
dalle esperienze importanti,
dal costruire localmente giovani talenti
e formare allenatori e preparatori atletici”
È una riflessione che si può fare un po’ a livello generale per lo sport italiano, specie per gli sport di squadra?
Sicuramente, penso che il calcio sia l’esempio lampante. Sugli stadi di proprietà stiamo arrivando molto tardi rispetto al resto d’Europa. Una tua struttura di proprietà ti permette di avere degli introiti, di avere libertà negli investimenti. Bisogna credere nel futuro, ma con programmazione e lungimiranza, sostenendo atleti e dirigenti a far ripartire il movimento. È difficile farlo in impianti degli anni ’60, senza riscaldamento, dove può capitare che saltino delle partite in programma, magari in A2, per problemi tecnici.
Il campionato italiano si è arricchito ultimamente di molti “campioni di ritorno”, da Teodosic a Datome e Belinelli.
Pensi sia un valore anche per la crescita dei nuovi talenti?
I grandi campioni che tornano a giocare in Italia o che vengono per la prima volta, alzano il prestigio del nostro campionato e lo fanno salire di livello, per cui bisogna ringraziarli. È un piacere per noi giocare contro di loro la domenica, sono da stimolo per i più giovani per migliorarsi, anche perché ci siamo ispirati a loro. Penso a Pajola della Virtus Bologna che giocando con Teodosic, Markovic e Belinelli e grazie alla sua tenacia e alla voglia di migliorarsi, è oggi in pianta stabile in nazionale.
Parlando di innovazione, il basket è continuamente soggetto a cambiamenti e innovazioni nel gioco.
Dalla ricerca del tiro da 3, a lunghi con caratteristiche fisiche e tecniche molto diverse dal passato.
Quali sono le innovazioni che secondo te stanno incidendo di più sul gioco e cosa cambierà ancora in futuro?
La dinamicità del gioco è variata notevolmente, gli spazi sono sempre più aperti con sempre meno persone in area, i lunghi sono più mobili e dinamici e sempre più verticali. L’altra cosa che non era normale una volta era che il lungo si allontanasse da canestro, possiamo citare Jack Galanda come uno dei primi a farlo. Questi fattori inseriscono una serie di nuove variabili a cui adattarsi: se il pivot è sulla linea dei tre punti, verrà coperto liberando l’area. Allo stesso tempo però potrà capitare di trovarsi scoperti a rimbalzo. È una coperta corta, alla fine molto dipende dalle scelte degli allenatori, per costruire una squadra il più equilibrata possibile. Io credo che l’innovazione dal punto di vista degli allenamenti, la continua ricerca del dettaglio rendano possibili delle condizioni atletiche che prima non erano pensabili. Penso che da questo punto di vista la strada sia tracciata. In più, penso che adesso si richieda sempre di più ai lunghi di saper tirare da fuori. Attenzione però, che questa tendenza non porti poi a plasmare talenti in una direzione poco proficua, magari non prestando cura e attenzione a determinati fondamentali a livello giovanile. Mi è capitato di vedere in prima persona grandissimi talenti non riuscire ad affermarsi proprio perché non riuscivano ad esprimersi su quei 2, 3 fondamentali che noi, da giovani, apprendevamo con tantissima attenzione e dedizione. Sono dettagli che comunque riportano sempre a un punto fondamentale: gli investimenti nel settore giovanile.
Qual è il tuo “generational player” e chi, tra i nuovi talenti pensi possa ambire a questo ruolo per le nuove generazioni?
Io sono cresciuto con il mito di Kobe Byant e tanti altri ma ho sempre apprezzato, tornando un po’ al legame con la mia terra, San Antonio come squadra, come gruppo, come coesione di intenti, come filosofia di gioco. Tim Duncan era al centro di questo sistema e io vedevo in lui, non tanto i movimenti tecnici da emulare, ma un faro di leadership silenziosa, un grande esempio da copiare. Se devo guardare ad oggi, Luka Doncic, trattato all’inizio anche un po’ da underdog in quanto giocatore europeo, è esploso da subito, inanellando numeri straordinari che pochi si sarebbero aspettati da lui, specie chi non conosceva a fondo il basket europeo. Lui come giocatore sloveno, quindi anche per la vicinanza con Trieste, è il go-to-guy che sceglierei per il futuro. Se dovessi citare due giocatori da copertina, farei il nome di Zion Williamson e Ja Morant, due giocatori da highilights come se ne sono visti pochi. Ti dico però che a mio parere l’NBA, come prodotto confezionato sempre più volto allo spettacolo, sta un po’ scadendo dal punto di vista del gioco. Tanti giocatori USA overseas che vengono a giocare in Europa apprezzano la complessità, la completezza, la grande tattica del gioco europeo, ad esempio le difficoltà di una competizione come l’Eurolega dove anche a livello italiano finalmente ci stiamo riaffermando, grazie ai risultati di Milano, che penso possano fare bene a tutto il movimento.
“Tanti giocatori USA overseas
che vengono a giocare in Europa
apprezzano la complessità,
la completezza,
la grande tattica del gioco europeo”
A livello europeo, quali sono le realtà da guardare, da cui trarre ispirazione?
Se dobbiamo fare degli esempi, in Spagna c’è una grande differenza tra la prima lega del campionato professionistico e le leghe inferiori, basti pensare che c’è una tassa di 1 milioni di euro da pagare per iscriversi al massimo campionato: tante squadre della nostra A2 non potrebbero neanche iscriversi. Rimangono quindi per tanti anni sempre le stesse squadre senza ricambio, mantenendo però un livello molto alto. Credo che il campionato italiano sia cresciuto e possa crescere ancora, ma questo deve passare dai giocatori italiani che devono diventare sempre più centrali per il movimento. Parlando di strutture, non si può non citare la Germania. Da quel punto di vista sono molto avanti, penso al Bayern guidato da Trinchieri e a tante altre: lì il livello è destinato ad alzarsi nei prossimi anni. Altre esperienze che citerei sono sicuramente la Grecia e la Turchia.
Sei ancora un atleta professionista del massimo livello, con una routine sportiva quotidiana molto impegnativa.
Perché hai scelto di partecipare a Digital & Entrepreneurship in Sports?
Io credo sia un po’ approssimativo per uno sportivo limitarsi, durante la carriera, solo al campo. Più si riescono a sfruttare le opportunità di crescita anche fuori dal campo, più si potranno raccogliere i frutti dopo. Io mi sono laureato in scienze motorie, sto completando adesso la magistrale e credo che la formazione sia un binario che deve viaggiare in parallelo con l’attività professionistica. Abbiamo la fortuna di fare un lavoro che ci piace, ma anche tanto tempo libero perché il nostro corpo ha bisogno di riposare, da investire per fare formazione e imparare cose nuove per il post-carriera. Fortuna ha voluto che il Programma sia di lunedì – scherza – e quindi fossi libero per seguirlo.
“Credo sia un po’ approssimativo per uno sportivo limitarsi, durante la carriera, solo al campo.
Più si riescono a sfruttare le opportunità di crescita anche fuori dal campo,
più si potranno raccogliere i frutti dopo”
Quali sono gli ambiti del Programma che ti hanno più colpito e quali sono le tue aspettative?
Credo che il Programma sia molto interessante. La prima lezione sul personal branding mi è stata molto utile perché avevo deciso di reclutare delle persone per il mio progetto di tesi di laurea sui social, sfruttando un po’ il seguito che ho e la visibilità in città. Da questo poi un’autrice Rai mi ha contattato per apparire in una trasmissione e sicuramente ho allargato il mio bacino di utenza. Avendo adesso più “materiale umano” da studiare, la mia ricerca potrà essere sicuramente più completa.
Sport e business digitale sono sempre più legati, pensi di sfruttare anche da questo punto di vista le competenze del Programma?
Siamo tutti un po’ affascinati dal mondo dell’imprenditoria, specie noi giocatori, che vediamo gli imprenditori scommettere su di noi, perché la verità è che investono sulle nostre qualità sportive ed umane. È un settore che sono interessato a conoscere al meglio, per poter affrontare poi il mondo del lavoro vero con più conoscenze possibili.
Hai già qualche progetto in cantiere per il futuro o ti vedi già in un contesto diverso rispetto al professionismo?
Ho già tracciato in qualche modo quella che sarà la mia strada per il futuro, cominciando a studiare scienze motorie e credo che nel mondo della preparazione atletica e sportiva parta avvantaggiato per un’esperienza non solo accademica, ma anche pratica, già collaudata. Mi ritengo una persona estremamente dinamica, per cui non mi precludo strade diverse, dal settore della salute a quello della riabilitazione ma anche il panorama startup mi interessa molto per cui, se volete offrirmi un contratto – scherza –, ci sono.