Firenze, Stadio Franchi, 19 novembre 2016, le 16 passate. Giovanbattista Venditti raccoglie l’ovale da Benvenuti e vola in meta scaraventando al passaggio l’apertura sudafricana Jantjies. È il sorpasso sul Sudafrica, è la meta decisiva per la vittoria che scrive la storia del rugby italiano, la prima e unica ad oggi dell’Italia contro una delle grandi nazionali dell’emisfero Sud.
Basterebbe questo a dare un valore inestimabile a una carriera, se non fosse che per Giovanbattista siglare mete decisive nelle vittorie della Nazionale è il marchio di fabbrica: in meta nella storica vittoria contro l’Irlanda nel 6 Nazioni del 2013, in meta nell’ultima vittoria nel torneo contro la Scozia nel 2015. Una vittoria che manca da molto, troppo tempo, così come manca alla nazionale quella generazione di campioni di cui Giovanbattista fa parte a pieno titolo. Dopo 44 cap e un Campionato del Mondo con la Nazionale, più di 100 presenze in Pro 14 con Aironi e Zebre, una stagione in Premiership con i Newcastle Falcons, il ritiro dal professionismo a 30 anni ha lasciato un vuoto a tanti tifosi, che sono pronti a riabbracciarlo in futuro, magari in un’altra veste.
Formarsi continuamente, allargare il bagaglio di competenze, è infatti un mantra per Giovanbattista, partendo sempre dal rugby e passando per Digital & Entrepreneurship in Sports.
Il rugby è lo sport che spesso viene preso come punto di riferimento per la gestione di successo un’attività lavorativa o imprenditoriale. Quali sono i valori e gli insegnamenti che hai portato fuori dal campo?
Il rugby mi ha insegnato tanto, mi ha fatto diventare la persona che sono. Amo fino a un certo punto la metafora del rugby, spesso è fin troppo inflazionata e utilizzata anche da chi non lo ha mai praticato o lo conosce poco. Valori come il sostegno, la condivisione, il sacrificio sono presenti in tutti gli sport di squadra, ma posso dire con certezza che il rugby riesce a comunicarli in maniera forte, anche nella vita lavorativa e in quella di tutti i giorni. Nel rugby, non ti puoi nascondere, non puoi mentire. È molto viscerale per lo scontro fisico, in campo le vere forze si vedono sempre. Quando una squadra avanza è perché l’altra sta cedendo e sta indietreggiando: è di una verità sconvolgente. Ma dietro questa fisicità c’è tantissima strategia. Negli ultimi anni sono aumentate di gran lunga le ore in sala video rispetto al solo allenamento sul campo o in palestra. Un aspetto fondamentale è la capacità di adattamento: in un nanosecondo devi replicare alle mosse dell’avversario. Inoltre, la capacità di performare sotto pressione, di fare la scelta giusta nell’imminenza di un placcaggio, di rimanere lucido nelle situazioni di difficoltà, di restare freddo, sono caratteristiche che le aziende cercano sempre più di portare nel loro ambito.
“Il rugby mi ha insegnato tanto,
mi ha fatto diventare la persona che sono”
Sei stato protagonista di diversi successi della Nazionale degli ultimi anni: a quale ricordo sei più legato?
Quando mi sono ritirato sono stato investito da tantissimo affetto e, staccandomi dal campo, mi sono reso conto ancora di più che quello che abbiamo fatto, come squadra e anche a livello individuale, è stato veramente speciale per i tifosi. Se avessi saputo che vincere le partite e segnare mete desse una carica emotiva così forte – scherza – forse ne avrei fatte altre mille. Se devo raccontarti un ricordo speciale, con un po’ di dietro le quinte, è sicuramente la vittoria contro il Sudafrica. Non per la vittoria in sé, l’unica contro una grande dell’emisfero sud, unica e prima volta. Ma il mio approccio alla partita non lo scorderò mai. Due settimane prima non ero neanche convocato, infatti giocai con le Zebre a Edimburgo, segnando tra l’altro la meta della vittoria a tempo scaduto. Avevo quindi programmato un viaggio all’estero per riposarmi con la mia famiglia. Invece all’ultimo secondo arriva la notizia della convocazione, quindi mollo tutto e volo a Roma per raggiungere i miei compagni in raduno. Essendomi aggregato all’ultimo, salto il primo test match contro gli All Blacks, dove perdiamo contro una squadra veramente “ingiocabile”, ma tutti i miei compagni fanno un’ottima prestazione e non penso proprio di giocare contro il Sudafrica. Prima di ogni partita ho sempre studiato a fondo il mio avversario di ruolo, prendendo appunti su un’agendina: le caratteristiche, i movimenti, le giocate, tra l’altro scrivevo sempre tantissimo. La mia agendina quella settimana è bianca, perché ero veramente convinto di guardarla dalla tribuna. E invece parto titolare e, al di là della meta della vittoria, è stata sicuramente la mia prestazione più bella in maglia azzurra, la porto scolpita nel cuore.
“Staccandomi dal campo, mi sono reso conto
ancora di più che quello che abbiamo fatto,
come squadra e anche a livello individuale,
è stato veramente speciale per i tifosi”
Sei stato protagonista anche di uno dei momenti più “innovativi” e mediatici del rugby degli ultimi anni, nel 6 Nazioni del 2017 contro l’Inghilterra.
Come hai vissuto quell’esperienza e assimilato questa innovazione nel game plan?
Brendan Venter (allenatore della difesa della nazionale italiana sotto Conor O’Shea ndr) è un genio, è stato uno dei migliori allenatori che ho mai avuto. Ti faceva sempre percepire che stava pensando a qualcosa, ti aspettavi sempre che potesse arrivare una “genialata”. Quando Conor ci annuncia cosa volevano fare contro l’Inghilterra ci dice: ragazzi, adesso vi parleremo di una cosa che potrà sembrarvi strana, ma state tranquilli e ascoltateci, o lo facciamo tutti convinti o facciamo una figuraccia. Brendan ci spiega la tattica di non contestare nei raggruppamenti e, all’inizio, abbiamo un po’ di smarrimento, giocavamo contro l’Inghilterra, a Twickenham, tempio del rugby mondiale. Ma lui ti trasmetteva sempre tanta energia e sicurezza. Abbiamo passato tutta la settimana a fare una cosa abbastanza innaturale, frenarci per non formare il raggruppamento. E alla prova del campo la strategia ha funzionato, abbiamo chiuso il primo tempo in vantaggio. Poi, purtroppo, nel secondo tempo la squadra inglese si è adattata e nell’ultimo quarto d’ora il risultato è stato anche troppo pesante, ma abbiamo veramente sfiorato un risultato clamoroso.
C’è stato un periodo in cui l’Italia sembrava essere veramente la startup del panorama del rugby, in rampa di lancio.
Era un’illusione?
Cosa non ha funzionato?
Spesso e volentieri, durante il 6 Nazioni, ottenevamo quella vittoria con la Scozia, a volte con il Galles, che dava la sensazione di essere a loro livello. Posso sembrare molto duro nel giudizio ma con il senno di poi, da protagonista in diverse di quelle vittorie, posso assicurare che sono stati dei veri e propri miracoli sportivi. Se quelle partite le rigiochi, 99 volte su 100 le vince sempre il nostro avversario. Facciamo un paragone con il mondo dell’impresa. Se gli utili di un’azienda arrivano da una sola fonte, difficilmente questa potrà sostenersi nel lungo periodo, e il nostro movimento ha fatto affidamento su campioni straordinari senza costruire le condizioni per far nascere le nuove generazioni o per migliorare i talenti, non investendo sulle strutture, sulla formazione.
Dopo questo 6 Nazioni, con il rinnovamento al vertice della Federazione, cosa cambierà?
C’è stato un cambio importante al vertice dopo otto anni di continuità. La nuova Presidenza ha sempre contestato l’attenzione data praticamente in maniera esclusiva al professionismo da parte della scorsa gestione a scapito del rugby di base e i fatti purtroppo gli danno ragione. Io vengo dal professionismo, tutta la mia carriera si è svolta li ed è evidente che è questo il livello che da la benzina alla nazionale. Ma se dimentichi la base della piramide, la punta non potrà mai crescere. Il nuovo Presidente vuole invertire questo trend, senza togliere all’alto livello, ma tornando ad investire e ad aiutare il rugby di base. Parliamo di volontariato puro, di persone che mettono a disposizione il loro tempo e le loro competenze per avvicinare i ragazzi al rugby e farli crescere. Personalmente sono contento di questa nuova strada perché i giocatori si formano nei primi anni. Io ho esordito in nazionale a 21 anni, e a quell’età ero già un giocatore formato, certo con tantissime cose da migliorare e implementare, ma la base era quella. Un giocatore non lo cambi a 20 anni, per questo i migliori allenatori dovrebbero seguire i bambini, i ragazzi giovanissimi. L’investimento sulla formazione di base è la strada per invertire la rotta.
“L’investimento sulla formazione di base
è la strada per invertire la rotta”
Da dove riparte il movimento?
Ripartiamo dall’organizzazione e dalla managerialità, che è un po’ anche il motivo per cui mi sono iscritto a Digital & Entrepreneurship in Sports. Sono competenze che voglio perfezionare per riversarle poi sul mondo che conosco.
Si parla invece molto poco dei grandi risultati della nazionale femminile, dovrebbe essere presa ad esempio?
La Nazionale femminile è un grandissimo esempio, stanno facendo qualcosa di magico raggiungendo grandissimi traguardi con pochissimi mezzi, se pensiamo al numero esiguo di squadre e giocatrici in Italia, dove manca un campionato professionistico al contrario di paesi come Francia e Inghilterra. Sono tutte atlete studentesse, lavoratici, mamme che vanno a difendere il tricolore in giro per il mondo e lo fanno alla grande: migliorano di anno in anno a partire dal 6 Nazioni, non solo dal punto di vista della performance, ma anche dei risultati, l’anno scorso sono arrivate seconde a pari merito. Parliamo di risultati enormi con un movimento relativamente giovane e ancora alle prime armi, ad esempio dal punto di vista delle tempistiche che hanno a disposizione per la preparazione. È un po’ il percorso che ha fatto la nazionale maschile prima del professionismo, quando una generazione di grandi uomini e grandi giocatori ha trascinato l’Italia nel 6 Nazioni battendo nazionali più strutturate e con già allora budget notevolmente superiori. Insomma, è la dimostrazione che anche noi italiani le cose le sappiamo fare quando vogliamo, e se lo sappiamo fare in condizioni di difficoltà, pensa quando raggiungeremo l’eccellenza dal punto di vista organizzativo e manageriale, con una visione chiara.
Si è chiuso un 6 Nazioni molto negativo per l’Italia, ma bellissimo e avvincente.
Chi ti ha impressionato di più?
Il 6 Nazioni è stato veramente appassionante, spogliandomi dai panni di tifoso azzurro. Certo, la vera competizione è tra cinque squadre, e posso solamente immaginare quando l’Italia sarà veramente competitiva che torneo stupendo sarà. E dovremo diventare una contender per la vittoria finale, non puntare a vincere una o due partite. In questo torneo abbiamo visto tante filosofie, una squadra guidata da senatori come il Galles, una squadra come la Francia che sta portando a casa frutti di un lavoro lunghissimo. Negli ultimi anni hanno speso tantissimo nella formazione, hanno obbligato i club dell’alto livello a puntare sui giovani francesi limitando l’accesso agli stranieri. I giovani che guidano la nazionale sono quelli che hanno vinto le ultime edizioni del mondiale under 20, battendo Nuova Zelanda e Sud Africa. Puntare sui giovani non significa mandarli allo sbaraglio, bisogna mettere a terra un piano preciso per valorizzarli e non bruciarli.
Cosa manca all’Italia per puntare in maniera efficace sui giovani, per sostenere veramente il talento verso il successo?
Sono un grandissimo tifoso dell’organizzazione. Una persona può avere un talento enorme ma se non è messa nelle condizioni giuste, non renderà. Non è il talento del singolo che alza il livello del contesto, ma è il contrario, è sempre il singolo che si adatterà. Lanciare un giovane di talento in una squadra organizzata, porterà quel talento ad esprimersi al massimo, farlo in una squadra non pronta lo farà adattare a un livello inferiore. Questo principio funziona anche a livello aziendale: è sempre l’ecosistema intorno che ti plasma, che ti migliora o al contrario ti trascina giù. Diciamo che abbiamo un bug nel sistema attualmente – scherza –. Io stimo tantissimo Franco Smith (allenatore attuale della nazionale italiana di rugby, ndr) ma quando sostiene che il gruppo giovane della nazionale, di grande talento, fra 8 anni sarà competitivo al massimo, mi trova in disaccordo. Non ci si può affidare solo al fattore tempo, giocatori giovani saranno più forti se verrà strutturato per loro un percorso e una strategia per portare il loro potenziale a rendere al meglio. Perdere tutte le partite non ti fa fare esperienza, si impara dalle sconfitte solo se si è in grado di trarne insegnamento.
“Non è il talento del singolo
che alza il livello del contesto…
è sempre l’ecosistema intorno che ti plasma,
che ti migliora o al contrario ti trascina giù”
Hai giocato in Premiership, campionato di massimo livello del professionismo assieme al Top 14.
Quali sono le differenze che più ti hanno impressionato rispetto al nostro movimento?
Le differenze sono tante, la principale è sicuramente l’organizzazione. Il mio primo giorno ai Falcons, la persona della società che era venuta ad accogliere me e la mia famiglia all’aeroporto aveva ritirato in anticipo le chiavi di casa per pulire e fare la spesa. Sembra una banalità, ma è il salto vero del professionismo. Le prime settimane in cui ero li, mi chiedevano continuamente aggiornamenti sulla casa, sulla scuola dei bambini, pensavano sempre alla mia famiglia. Se tu sei sereno, la tua famiglia è serena, giocherai meglio: “happy wife, happy life”. Sono dettagli che non richiedono grandi capitali, si tratta semplicemente di attenzione, di mettere al centro la persona, prima che il giocatore. Da questi particolari crei una cultura di club, io da subito ero pronto a dare tutto per quella maglia. Eravamo 68 giocatori in rosa e in un anno non ho mai visto una persona arrivare in ritardo. In Italia, da senatore, facevo anche lo “sceriffo”, gestendo le multe della squadra. Non ti dico in una settimana, tra un ritardo e una maglia sbagliata, quanto tiravamo su.
Perché hai scelto di partecipare a Digital & Entrepreneurship in Sports?
Dal punto di vista personale, quello che mi ha contraddistinto è sempre stato il guardare avanti, il pensare già al prossimo obiettivo. Questo a volte mi ha fatto degli sgambetti quando ero in campo, ma mi ha spesso fatto arrivare preparato per il futuro. Ho sempre messo la carriera universitaria e la mia formazione personale allo stesso livello della carriera rugbistica, proprio per arrivare pronto al dopo. Quando ho smesso, la cosa positiva è che ho avuto ancora più tempo per imparare di più. A livello sportivo riesci a rimanere in alto se continui a migliorare, sono arrivato in nazionale a 21 anni e il rugby è cambiato velocemente, dalle regole allo stile di gioco e se non ti adatti purtroppo sei fuori. È un insegnamento che mi porto dietro e che tengo vivo anche dal punto di vista professionale. Quando ho visto quest’opportunità ho deciso di coglierla perché mi piace farmi contaminare, sviluppare un ventaglio di armi per il futuro. Già oggi il percorso è stato molto utile, per le connessioni, per la dinamica interattiva e perché crei relazioni con gli altri partecipanti che possono essere ponti per il futuro. Lo sport ti forma in maniera straordinaria dal punto di vista delle soft skills, ma se poi non riesci a sfruttarle con delle competenze tecniche, rischi di vanificarle. Ci tengo moltissimo all’organizzazione e voglio essere uno di quei dirigenti del futuro che non ha tanto la carriera da ex-giocatore alle spalle, ma competenze pratiche per portare tutti quegli aspetti manageriali che oggi mancano nel mondo sportivo.
“Voglio essere uno di quei dirigenti del futuro
che non ha tanto la carriera da ex-giocatore alle spalle,
ma competenze pratiche
per portare tutti quegli aspetti manageriali
che oggi mancano nel mondo sportivo”
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